Se il Papa viene rapito e imprigionato a Scampia

Vigilia del Giubileo 2050. Il Papa viene rapito. È prigioniero a Scampia, nel nuovo Stato confederale del Sud. Al Nord, nella Repubblica Cisalpina, un governo laicista, razzista e cinico, guida le sorti della vecchia Pianura Padana; al Centro si va formando un nuovo Stato Pontificio e al Sud un generale corrotto, tale Ruotolo, media fra le cosche camorristiche al potere e quelle mafiose che mirano alla definitiva separazione della Sicilia da Napoli. L’ Europa ci tiene lontani, in una sorta di protettorato, penalizzandoci con alte tariffe doganali. Lo Stato federale italiano non è altro che una camera di compensazione di intrighi e malaffare. Riunendo i ministri della Confederazione del Sud, rappresentanti delle varie cosche, Ruotolo afferma: «Vi ricordo che il prodotto interno lordo della nostra Confederazione è dato per il cinque per cento dal turismo, per il venti per cento dall’ agricoltura, per il trenta per cento dalla fabbricazione e vendita dei prodotti contraffatti, e per il resto dalla droga».

È lo scenario fantapolitico disegnato da Giuseppe Perrotta nell’ arguto e intrigante romanzo giallo (Giubileo 2050. Una storia speriamo inventata, Kairòs) di cui non sveleremo i complessi intrecci al lettore. Tanto più che del libro si parlerà all’ Istituto italiano per gli studi filosofici alle 17 con Raffaele Calabrò, Gino Nicolais, Maurizio Vitiello. Lo stile dell’ autore è scorrevole, piacevole e sempre intessuto di ironia, un’ ironia lontana e riposta, che lascia trasparire, a mio modo di vedere, il senso tragico e autentico della favola giallistica. Questo perché, non sembri né banale né paradossale, il racconto fantastico presenta tratti drammaticamente verosimili. Sono da sempre convinto che, se il Mezzogiorno d’ Italia si dovesse separare dal resto del paese e dall’ Europa, finirebbe presto o tardi, ma più presto che tardi, con l’ essere governato, direttamente o indirettamente, dagli interessi prevalenti della malavita organizzata. Qualcosa di simile pensava Giustino Fortunato, il meridionalista più realista di tutti che, per questo motivo, ha sempre combattuto perché non s’ intaccasse l’ unità, così faticosamente conquistata, del nostro paese. E sono altresì convinto che la cosiddetta Italia del Nord (con o senza l’ Emilia? Con capitale a Milano, a Torino o a Venezia?) non sarebbe qual gran paese ricco, civile ed evoluto com’ è nei sogni farneticanti di tanti creduli abitanti di quelle terre. Ma un piccolo Stato di affaristi sì, con i suoi camorristi con accento settentrionale, simili a quelli descritti da Alessandro Manzoni. Lo sa perfino Bossi che, pur malato e claudicante, conserva la lucidità per affermare che di secessione proprio non se ne parla e che proprio la Lega, senza la quale il popolo del Nord avrebbe impugnato il fucile, è garante dell’ unità del paese. Il progetto è un altro: è quello più sano e realistico di tenere il paese unito utilizzando le risorse dell’ intero territorio e rafforzare la ricchezza di alcuni settori industriali del Nord per mantenere buona la nuova plebe che anche lì si sta formando. Come dire, i piccolissimi industriali delle aziende familiari e i poveracci che si appagano di indossare cornuti elmi padani. La prendiamo a ridere o ce ne preoccupiamo seriamente? Per preoccuparcene seriamente bisogna cominciare a prenderla a ridere. Se la politica non può seguire questa strada perché deve essere, o almeno deve fingere, di prendere le cose sul serio, possono e debbono farlo gli intellettuali. E se non riesce a ridere, è bene che ci si indigni. Da troppo tempo c’ è un’ indulgenza diffusa nei confronti di tanti particolarismi italiani quando non, addirittura, esaltazione di chissà quali virtù nascoste nei cosiddetti territori. Ma cosa sono questi territori? E in che consiste la difesa degli interessi dei territori?

A quello che ci è stato dato di vedere in questi anni, tranne per alcuni casi e per lodevoli eccezioni, si tratta della difesa di rendite di posizione particolari, se non di aperto e chiaro clientelismo politico-amministrativo. Il che, in sé e per sé, non sarebbe un gran danno se non fosse che in una prospettiva ideologica, quella attuale, finisce col distruggere il tessuto stesso della vita civile, o semplicemente associata, del paese. Insomma, tutti desiderano che i propri figli siano trattati meglio degli altri in una data scuola e molti si spingono a cercare una raccomandazione. Altro è sostenere che la raccomandazione è cosa buona, che rappresenta il futuro dell’ umanità e che chi non capisce e non si adegua è fuori dalla modernità. Se passa questo principio passa innanzitutto un principio immorale, e dobbiamo dirlo con forza e senza infingimenti sofistici. Se poi proprio vogliamo concedere qualcosa al cosiddetto utilitarismo, dobbiamo fare lo sforzo di immaginazione di comprendere cosa accadrebbe se vincesse l’ ideologia dei particolarismi. Delle raccomandazioni nel nostro esempio. In una scuola dove tutti sono raccomandati nessuno più è raccomandato. E siamo punto e daccapo. A un livello più basso.

Ernesto Paolozzi                                                                                                                                                  

Repubblica – 22 giugno 2010 pagina 1 sezione: NAPOLI

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