L’origine del pensiero e dell’azione
La ricerca dell’origine, quale che essa sia, è sempre, in qualche modo, una ricerca metafisica, anche quando a condurla sono scienziati specializzati muniti di particolari conoscenze e tecniche. L’origine, infatti, che si può inseguire per via scientifica è destinata, per la natura stessa della ricerca, ad essere un’origine transeunte, suscettibile di “spostamenti”, a seconda delle procedure e del progresso scientifico. Non si può mai dire -Siamo arrivati alla conclusione_ perché, in tal caso, usciremmo dalla ricerca di tipo puramente scientifico e contraddiremmo il metodo stesso. Possiamo solo dire -Fino ad ora, per noi, l’origine di tale cosa è questa.- E’ facile comprendere dunque che non si tratta, propriamente, di una ricerca dell’origine. Perché tale si configurerebbe solo in un orizzonte metafisico. E spesso le scienze, o quello che noi crediamo le scienze siano, sconfinano, inconsapevolmente in quella “oltre fisica” che vorrebbero combattere.
Le religioni, lo spirito religioso, non possono fare a meno di ricercare e proclamare un’origine. Verrebbero meno, in fondo, alla loro stessa essenzialità e pertanto, non solo non devono temere la metafisica, ma la devono ricercare e trovare. Anzi, fondare. Si tratta di una scelta di campo decisiva, importante, per tanti aspetti drammatica quanto, naturalmente, discutibile, per cui, in questo contesto, si sottrae alla discussione critica che vorremmo elaborare.
Discorso diverso è per la filosofia la quale non ha, nel suo statuto logico, né il senso di preclusione che la metodologia delle scienze impone, né quello di necessaria inclusione che impongono le religioni. Per questo motivo essa si contamina con le une e con le altre nell’assidua ricerca dell’origine e nell’altrettanto assidua rinuncia a quella ricerca stessa.
Già Aristotele, nel libro Alfa della Metafisica, identificava la filosofia presocratica con la ricerca dell’arché , del principio, dell’origine unificante nel caos delle sensazioni. E così, quei primi filosofo-scienziati o filosofi-sapienti, che apparivano ai profani come a generazioni e generazioni di studenti dei ridicoli ricercatori di principii generatori, come l’acqua di Talete, acquistavano senso e riconquistavano quel rispetto che spesso si era conferito loro solo per pigra consuetudine e con molti dubbi.
Molti secoli dopo, però, e senza nulla voler togliere naturalmente al genio aristotelico, l’altro geniale fondatore della filosofia contemporanea, Hegel, sosteneva essere un falso problema la ricerca del cominciamento o del principio e che, in sostanza, in filosofia, come in ogni altra cosa della vita, bisognava pur cominciare da qualche parte. E con ciò intendeva dire che il falso problema era quella di concepire un’origine un inizio, un principio assoluto, che generasse tutto il resto.
Giungiamo così alla identificazione del nostro problema che è, appunto, circoscritto, perché non vuole porsi la domanda assoluta sull’origine della vita ma quella, non meno pretenziosa ma certamente più terrena, sull’origine del pensiero e dell’azione.
In verità, la questione si pone in termini strettamente dialettici perché, più che porsi il dilemma circa l’origine del pensiero o dell’azione, la ricerca filosofica è essenzialmente tesa verso l’identificazione del primato dell’una sull’altro e viceversa. E’ dunque il pensiero, la teoresi, a determinare l’agire umano, la prassi o, viceversa, il pensiero nasce e scaturisce dalla volontà, da quell’azione che sembra essere originaria?
Non vi è dubbio che questa domanda abbia attraversato l’intera speculazione filosofica dal suo stesso nascere e, forse, non vi è dubbio che nel pensiero antico il primato sia toccato al pensiero. Nella stessa religione cristiana appare in primo piano il logos, che poi si fa carne anticipando l’hegeliano universale concreto. Ma è anche evidente che la distinzione non è mai così netta come pure può apparire. Ed anche nella figurazione di un Dio che si fa uomo, sarebbe azzardato parlare propriamente di un pensiero o di un’idea che venga prima della mondanità, perché quel Dio contiene in se stesso la mondanità, che da esso emana , come diverrà sempre più chiaro nel pensiero eretico di Giordano Bruno e di Benedetto Spinoza.
Ma la questione si fa più stringente nella filosofia a noi più prossima, da Hegel a Marx al nostro Croce e, per taluni aspetti diventerà il centro stesso di quella speculazione. Quali che siano le interpretazioni hegeliane, anche quelle particolarmente sottili ed intelligenti, sembra non esserci dubbio che nell’idealismo hegeliano il pensiero possa assumere un qualche primato, anche se, nello Hegel maturo, quella nottola di Minerva (il pensiero appunto) che si alza solo al tramonto (la vita nel suo dispiegarsi) sembra assumere un ruolo diverso, se non addirittura malinconicamente secondario. L’idea hegeliana, inoltre, e lo spirito nel suo articolarsi, la ragione concreta, non si identificano col pensiero astratto, calcolante o sillogistico, e sono già sostanziati dalla prassi, quanto meno dagli umori dell’agire umano. E difficilmente si potrebbe pensare ad una separazione delle due sfere. Tuttavia alla maggior parte degli interpreti, sia a coloro i quali eressero la filosofia hegeliana a loro punto di riferimento essenziale, come l’italiano Bertrando Spaventa, ovvero a coloro che la assunsero a punto di riferimento polemico privilegiato, come Marx, essa apparve come un panlogismo, ossia come una filosofia che privilegia la ragione e che tutto cerca di spiegare ed assorbire nella ragione stessa: la ragione dialettica, come si è detto, ma pur sempre la ragione. In principio è l’idea che si fa mondo, nel senso che il mondo non può essere concepito se non attraverso la sua interna razionalità la quale ammette certamente il suo contrario e il suo negativo ma che in questa ammissione stessa riacquista il suo primato.
E’ necessario, a questo punto, soffermarsi sulla critica marxiana perché è con essa che la questione acquista la forza etico-politica che ha tenuto banco per più di un secolo e di cui ancor oggi si sente l’eco. E’ noto che la critica di Marx si esercita nei confronti di Hegel proprio sul tema del rapporto fra idea e prassi ed è noto altresì che la posizione del filosofo di Treviri è netta e radicale. Al di là dell’attendibilità filologica della lettura, marxiana prima e marxista poi, della complessa filosofia hegeliana e al di là anche dell’eventuale rigidità di quell’interpretazione stessa, ciò che interessa è il senso complessivo dell’operazione filosofico-politica che il fondatore del comunismo moderno mette in campo. Hegel avrebbe detto tutto giusto, afferma Marx, solo che ha fatto camminare il mondo a testa in giù ed ora si tratta di capovolgerlo. I filosofi, scrive Marx nella celeberrima XI Tesi su Fouerbach, hanno sin ora interpretato il mondo, ora si tratta di cambiarlo.
Insomma, si tratta di mutare totalmente la prospettiva: l’intero percorso della storia della filosofia, culminata nell’idealismo hegeliano, ha privilegiato l’aspetto speculativo, la teoria, l’idea, l’opinione, la conoscenza, a discapito della prassi, dell’azione, della realtà materialisticamente intesa come rapporto di forza all’interno del mondo della prassi-economia. L’origine non è più, dunque, nell’idea ma nella prassi che genera l’idea. Le ideologie sono un travestimento della realtà, le filosofie, le dottrine, le stesse istituzioni giuridiche e politiche sono il prodotto della condizione economica reale di un dato momento storico. Ciò che si presenta sotto la veste dell’universalità è in realtà importato storico di un momento della storia in cui una classe economica, vincendo sul terreno dei rapporti di forza economici, genera e impone la propria cultura prospettandola come l’unica cultura, l’eterna filosofia della vita. Così pure i sistemi politici, le costruzioni giuridiche, gli stessi stili di vita quotidiana. Il liberalismo di Locke, per esempio, è la filosofia della borghesia nascente ed affermatesi e i sistemi parlamentari sono i modelli giuridici attraverso i quali si esercita il potere della borghesia.
Come è facile notale, al di là dei tanti distinguo che si possono operare, a cominciare dalla denuncia di una estrema semplificazione dell’intera storia della filosofia, come della storia tout court ,è fuori di dubbio che la posizione di Marx ebbe un impatto etico-politico gigantesco, tale da scuotere dalle fondamenta stesse l’intera impalcatura del pensiero occidentale. Tanti più che la teoria marxista finiva col coincidere con quel senso comune, tipico di quella borghesia che pur voleva combattere, secondo il quale i fatti, la cosiddetta realtà, gli interessi economici, contano più delle idee e delle parole. Ma a noi non tocca, in questa sede, entrare in questioni di carattere troppo strettamente sociologico o politico. E nemmeno di segnalare i pregi e i difetti di una posizione che, da un lato, ha contribuito alla liberazione di milioni di lavoratori troppo spesso sfruttati da un capitalismo eccessivamente rapace, ma che dall’altro ha generato mostri totalitari di inaudita ferocia i quali hanno fondato e giustificato la loro violenza sulla base di quella ideologia che, pure, voleva liberarsi di tutte le ideologie.
Conviene invece, per il nostro discorso, saltare al di là di questo lungo fossato della storia per giungere al pensiero di Croce che è, per tanti aspetti, esemplare, essendo la formazione filosofica del grande pensatore italiano hegeliana e marxista assieme, vichiana e machiavelliana. Croce è pensatore dialettico e storicista: a pieno titolo, dunque, hegeliano. Ma da Hegel si distingue e si distanzia per motivi teorici da considerare capitali, quale è, appunto, la riforma della dialettica che egli compie affiancando al grande tema dell’opposizione quello della distinzione. La storia non sarà più, per Croce, un disegno che realizza se stesso realizzando la sua idea, ossia il suo scopo, il suo fine, ma si svolge, liberamente, all’infinito, nel concreto intrecciarsi di distinte categorie fondative della vita che si intrecciano indissolubilmente nell’unità che non sta al di sopra o al di fuori della storia ma nella storia stessa.
Ma, come abbiamo detto, la formazione di Croce deve molto al marxismo e all’interpretazione di Antonio Labriola in particolare. Il filosofo non fu mai marxista, ma riconosce ampiamente di aver contratto un debito col filosofo tedesco di grande rilievo: l’aver compreso, attraverso la lettura dei suoi tesi, l’importanza della forza nella storia; l’aver capito fino in fondo che l’economico, inteso in senso ampio, è un valore di per sé spirituale, cioè positivo, da non contrapporre necessariamente al bene, al vero, al bello. L’economico non è, insomma, soltanto un negativo ma, giusta la teoria delle distinzioni, un elemento fondamentale della vita e, dunque, della storia, che può assumere caratteristiche negative solo qualora pretenda di varcare la soglia dell’eticità.
Rispetto ad Hegel e rispetto a Marx, Croce capovolge il concetto stesso di storia. La quale non è più, o soltanto, ciò che determina il futuro ma è soprattutto, o fondamentalmente, ciò che noi, dal nostro presente, qualifichiamo come storia, per cui ogni storia, se è vera storia, è sempre storia contemporanea. Non siamo un meccanico prodotto della storia passata, né dell’idea, né dei rapporti materiali. Ma, pur vivendo nella unica condizione possibile, che è quella che la storia produce, noi cambiamo la storia perché la interpretiamo e la comprendiamo secondo i nostri valori e le nostre prospettive e, nel far ciò, orientiamo il futuro. Vale la pena di citare un celebre brano del filosofo tratto da un volume che, già nel titolo, tematizza la nostra questione: La storia come pensiero e come azione. “L’azione, scrive Croce, ha a suo precedente un atto di conoscenza, la soluzione di una particolare difficoltà teorica, la rimozione di un velo dal volto del reale; ma, in quanto azione, sorge soltanto da un’ispirazione originale e personale, di qualità affatto pratica, di pratica genialità. Né si può dedurla teoricamente per mezzo del concetto di una ‘conoscenza del da fare’, perché la conoscenza è sempre del fatto e non mai del da fare, e quello che si suol chiamare con tal nome, o è già un fare o è il niente, vuota chiacchiera. Tanto l’azione, pur nella sua ideale corrispondenza con la visione storica che la precede e condiziona, è un atto nuovo e diverso, che essa offre materia di nuova e diversa visione storica. Può dirsi, dunque, che la storiografia, rispetto all’azione pratica, sia preparante ma indeterminante.”
Eccoci al nocciolo della questione. L’origine della vita e della storia, è nel pensiero o nell’azione? Nella teoria o nella prassi? Sono le nostre esigenze attuali, i nostri bisogni, i nostri interessi, a spingerci a cercare soluzioni teoriche, a conoscere il nostro passato, per poi tornare, quasi rafforzati, alla prassi stessa, ossia al nostro impegno quotidiano? E’ una crisi familiare che spinge una coppia a cercare nelle religioni, nella filosofia o nella storia i principii e i valori da seguire o da ripudiare? E’ la crisi di un sistema politico, ad esempio della democrazia, a renderci contemporanea e viva la lettura dei grandi teorici del pensiero politico e la storia delle istituzioni democratiche? Vi è, insomma, un primato della prassi diverso, certamente, da quello ipotizzato da Marx, ma pur sempre primato, come sembra dire Croce nella precendente citazione? Oppure è il pensiero che, nell’orientare e determinare le nostre esigenze e le nostre azioni future, riconquista il suo primato perduto soltanto per alcuni momenti? Come potremmo orientarci nella vita, anche nella più semplice delle nostre azioni, se non avessimo un’idea della vita stessa, un concetto, un’intuizione, che ci permette di operare? Che cosa sarebbe l’azione, pur semplice, di spalancare una porta, se non avessimo riflettuto sulla realtà, ossia se non sapessimo che quell’azione è possibile?
In verità a noi sembra che la soluzione la fornisca lo stesso Croce, qualche pagina prima di quella già riportata, nel paragrafo intitolato La distinzione di azione e pensiero: “Perché se il conoscere è necessario alla praxis, altrettanto la praxis, come si è di sopra dimostrato, è necessaria al conoscere, che senz’essa non sorgerebbe. Circolarità spirituale, che rende vana la domanda del primo assoluto e del secondo dipendente col far del primo perpetuamente un secondo, e del secondo un primo.”
Ernesto Paolozzi