Quel pensiero sul palcoscenico della libertà di Donatella Gallone (“Napoli Più”, 3 novembre 2007)

L’identità del partito democratico secondo Paolozzi, in un libro edito da Guida

La libertà non muore sempre d’infarto. Spesso è assalita da lunghe malattie insidiose che le fanno rimpiangere una fine violenta e improvvisa. Tra i nemici che l’indeboliscono, il veleno dell’immobilismo: ne atrofizza i centri vitali, bloccandole i muscoli. Non c’è che un antidoto disponibile per restituirle energie e ossigeno: la costruzione di un modello nuovo di democrazia, sul piano politico e istituzionale, ma anche (e soprattutto) su quello sociale e culturale. Che ce ne sia bisogno in Italia lo dimostra la lunga ondata di rabbia popolare capace, però, dagli anni novanta a oggi, solo di sfiorare la montagna della politica, lasciando immutato il volto e il corpo di università, informazione, magistratura… La grande casta finisce per assorbire malumori e frustrazioni, lasciando vivere nel mare della tranquillità le altre caste che, sfacciate e impunite, non fanno nemmeno finta di cambiare facce e abitudini. Davanti a una tazzina di espresso, al tavolino di un caffè nell’anima storica di Napoli, Ernesto Paolozzi (pacatamente ironico) racconta proiezioni e retroscena del partito democratico, idea tracciata in un volume di oltre cento pagine (edito da Guida), protagonista, lunedì 5 novembre (ore 17,30) all’ex Hotel Bologna di Roma in via S. Chiara 5 (altro domicilio del Senato) di un dibattito con Simona Giovannozzi, Giuseppe Ossorio , Antonio Polito, Valerio Zanone .
Il (suo) partito democratico prende luce da un palcoscenico di famiglia: attrice, la madre, Maria, con cognome, Di Maio, che alimenta la tradizione napoletana tra recitazione e scrittura; il fratello minore di Ernesto, Oscar, ne assume l’ istinto, continuando a portarlo in scena (tuttora) con successo. Mentre zio Gaetano, fratello di mammà, da autore, regala fortunatissime commedie a Nino Taranto e (poi) al Sannazaro riaperto nel 1972 da Luisa Conte, gemme ancora splendenti della comicità napoletana (da ” ‘Mpriesteme ‘a mugliereta” a “Il morto sta bene in salute”), nutrendo però la fiamma segreta per poesia e filosofia, fino al ’91, quando dice addio al mondo. Da indipendente, arriva sui sentieri del pensiero e li fa conoscere al nipote prediletto, partendo dal Trattato di Locke che gli affida quando Ernesto, sedicenne, frequenta il Vico e si aggira tra i corridoi di quel liceo classico da agitatore politico, inseguendo il sogno rivoluzionario di una scuola per tutti. Aspettando che zia Olimpia, sorella di Gaetano, finisca di recitare al Sannazaro, in camerino si appassionano a discorsi tra Hegel e Croce. Zio Gaetano spera che il respiro liberale contagi, prima o poi, quel ragazzo contaminato dai germi della contestazione studentesca degli anni settanta. Augurio che si rivela intuizione d’artista: al secondo anno d’università , la curiosità sollevata dalle conversazioni familiari spinge lo studente di filosofia nell’aula dove Raffaello Franchini, audace tra i pochi accademici italiani, osa dedicare a Croce le proprie lezioni. E, a quel punto, il giovane Ernesto comincia a pensare che la vera rivoluzione si celebri tra quelle pareti della Federico II, distanti da omologazione e conformismo.
Maestro coraggioso e umile, Franchini, capace di riconoscere dignità e valore a ciascuna età. Consapevole del proprio compito, tanto da preparare la scaletta degli interventi universitari prima dell’appuntamento in aula, pur nella piena maturità dell’insegnamento. Profondamente terreno, da intellettuale puro: nessun atteggiamento snob potrebbe allontanarlo dalla totalità del reale. Così si abbandona alla ricchezza della rappresentazione in lingua napoletana, ammiratore di Luisa Conte che ne è efficace interprete. La invita a una trasmissione radiofonica nazionale che assegna, di volta in volta, a un filosofo diverso il ruolo di conduttore. Da quest’incontro nasce quello con zio Gaetano. Hanno occasione di scambiarsi opinioni in un paio di occasioni, ma la timidezza del commediografo è proverbiale e, come non rilascia mai interviste, raramente cede alla tentazione di piacevoli discussioni fuoricasa. Franchini, invece, si tuffa anche nell’ impegno politico e avvicina l’allievo al partito liberale, tanto che Ernesto ne diviene, poco più che ventenne, segretario cittadino, tuttavia con occhio sempre attento alla ricerca attraverso riviste e giornali (Nostro tempo, L’opinione liberale, il bollettino dell’associazione Giovanni Amendola) e, in particolare, al dialogo con l’area laica e riformista, senza abbandonare mai la didattica, come suo padre Mariano, ex insegnante e preside.
L’uragano Tangentopoli non lo sfiora nemmeno ma gli consegna, da osservatore e politico, le rovine della Repubblica. Non può più confrontarsi col maestro (scomparso nel ’90), tuttavia gli resta fedele nell’interpretazione degli avvenimenti e nel ’96 pubblica “La rivoluzione ingenerosa”: la “gggente” (ovvero il popolo dei fax che sostiene Mani pulite) insorge per sdegno mosso da egoismo, privo di obiettivi, mentre i grandi rivolgimenti del passato (francese e bolscevico), malgrado ferocia e crudeltà, rincorrevano ideali di rinnovamento. Infine, Ernesto arriva, nel 2007, in pieno dibattito sul nascente organismo politico, a disegnare la straordinaria opportunità del partito democratico. Guardando oltre: a una monografia completa su Croce (che sta finalmente scrivendo), non rinunciando alla speranza della politica. Ricordando che, se non la facciamo noi, la fanno altri per noi.