Politologia senza contenuti, rileggiamo Giolitti.
La superstizione scientifista degli ultimi decenni ha, progressivamente, impoverito la storiografia e gli studi di politica della presenza dell’uomo in carne ed ossa, preferito alle cosiddette strutture o categorie sociali, economiche, giuridiche e così via. Il risultato conseguito è stato quello di produrre, nella grande maggioranza dei casi, una esangue politologia, priva di contenuto reale, di sostanza umana, di concretezza.
La politologia scientifizzante, per lo stile con il quale è stata scritta in questi anni, somigliante a quello del coerente trattato, è sembrata, e non poteva essere diversamente, più “vera”, “esatta”, persuasiva di quella tradizionale. Quasi a dire: “Ecco, questa è vera storiografia, tutto il resto è chiacchiere, introspezione psicologica, letteratura, addirittura, talvolta, filosofia.”
Naturalmente, col passare degli anni, questo iniziale entusiasmo si è scontrato con la realtà, con le “dure smentite della storia”, per cui quei libri, quelle articolate e coerenti analisi, si sono mostrate talvolta inutili, talvolta dannose, sempre fuorvianti. E a quella politologia, senza uomini e senza sangue, è andata sostituendosi la politologia del gossip, del pettegolezzo, dell’intrigo, della dietrologia, dell’ammiccamento, della furbizia. Come dire “dato che ci volete riempire la testa di inutili teoremi, di false profezie scientifiche, di inesistenti leggi naturali delle cose, di inutili paragoni fra epoche e teorie, tanto vale esercitarsi nel divertente gioco di guardare agli uomini politici dal buco della serratura.” Quella che Hegel, con forte espressione, avrebbe definito la storia guardata dal punto di vista del maggiordomo o della cameriera.
A riconciliarci con le interpretazioni delle vicende storiche e politiche, giunge l’autobiografia di Giovanni Giolitti, Memorie della mia vita, con un saggio introduttivo di Olindo Malagodi. Testo quasi introvabile ripubblicato, in questi giorni, dalla rivista “Libro Aperto” (libroaperto@sira.it) diretta da Antonio Patuelli che così presenta l’opera:
“Si racconta che Giovanni Giolitti non scrisse di suo pugno le sue memorie che furono soprattutto frutto della penna di Olindo Malagodi sulla base di precisi indirizzi e controlli del meticolosissimo Giovanni Giolitti. Peraltro Giovanni Malagodi mi raccontò di avere personalmente, da giovane, corretto le bozze delle memorie di Giolitti.”
E’ superfluo ricordare come questo testo sia estremamente sobrio, come sobria fu la personalità del più grande uomo politico italiano dopo Cavour. Ma può essere utile ricordare, per ritornare al nostro assunto iniziale, come, per Giolitti, fosse importante la conoscenza degli uomini, delle caratteristiche individuali e della natura umana in generale per poter condurre una politica assieme ideale e reale, e senza per questo scadere nel pettegolezzo. Discorrendo del governo Sonnino, egli elogia la grande preparazione e la serissima capacità di lavoro del Sonnino, ma scrive:
“Se egli conosceva i problemi, non ha mai conosciuto in modo sufficiente gli uomini, la cui cooperazione, volontaria o renitente, diretta o indiretta, alla soluzione di questi problemi è indispensabile nei regimi democratici e rappresentativi. Sempre un po’ isolato ed appartato anche in mezzo ai suoi amici, si è tanto più trovato a disagio nelle assemblee, che vogliono essere dominate, ma a mezzo di una sagace persuasione che tenga conto di tutti i loro umori, e che sappia volgerli ai propri fini. E gli è mancato pure il sentimento che i problemi politici, pure rimanendo sempre gli stessi nel loro nocciolo, sono essenzialmente mutevoli nei loro rapporti con le condizioni e le circostanze fra le quali vengono affrontati.”
Questa pagina giolittiana sembra una pagina di pacato machiavellismo, di prudente e perfino ironico rispetto della democrazia, delle reali condizioni di una democrazia. Sappiamo tutti che, di lì a poco, prese la scena politica un dittatore che sapeva non solo maneggiare le assemblee ma anche le piazze, le grandi folle, l’intero popolo. Giolitti, invece, pensava che bisognasse coinvolgere quanto più possibile il popolo, i cittadini, nella concreta gestione della politica, proprio per evitare che dal sia pure mediocre ma libero gioco democratico si approdasse, come si approdò, ad una forma nuova di totalitarismo, come quello fascista, che si nutriva, per tanti aspetti, della stessa forza del popolo, ossia un totalitarismo democratico.
Questo pericolo è sempre in agguato, provenga da destra o da sinistra, quando si accentuano i personalismi e la rappresentanza democratica si affievolisce o si esercita fuori da ogni limite e controllo liberali. Non temo di dire che se l’Italia non avesse, come fortunatamente ha, un forte vincolo europeo sia formale che di fatto, temerei per le sorti della nostra democrazia.
Ernesto Paolozzi
Da “Corriere economia” del 14 gennaio 2002