Prendiamo in giro i guappi di cartone.
L’iniziativa del Premio Napoli di lanciare un sondaggio sulla legalità, di sottoporne i risultati a scrittori e letterati, per discuterne pubblicamente nel mese di settembre, è interessante ed originale. Proprio per questo mi permetterei di suggerire di aggiungere, alle trentasette domande rivolte ai cittadini, quest’altra: Conosce qualcuno che provi gusto per l’illegalità, che all’illegalità ispiri il suo ideale di vita?
Mi sembra, purtroppo, che questo aspetto della questione venga generalmente sottovalutato e che, invece, sia forse il più grave di tutti.
E’ vero, a Napoli esiste una sorta di naturale propensione all’ “incivismo”: è difficile trattenersi dal gettare carte per strada, ricordarsi di non parcheggiare l’auto in divieto di sosta.
E’ vero (ed è ben più grave) che esiste una malavita organizzata attorno alla quale si organizzano formidabili interessi economici, e forse politici, nazionali ed internazionali.
E’ vero che persiste una condizione di arretratezza economica tale da fornire alla malavita una larga manovalanza, soprattutto giovanile. I giovani scelgono la malavita non solo come alternativa alla disoccupazione ma anche, per così dire, come riparo sociale, in un’epoca di troppo facili esaltazioni consumistiche.
Ma, come abbiamo detto in principio, è centrale, a mio modo di vedere, il gusto della malavita.
Forse anche questo fenomeno non è soltanto napoletano. Ricordo l’arguta Ballata del Cerutti di Gaber, del ladruncolo Gino che, per gli amici del bar del Giambellino, era un drago, un mitico tipo duro. Ma credo di poter dire che nella nostra città sia diffuso in maniera inquietante. Azzardo e provocatoriamente esagero una cifra: un milione di cittadini fra Napoli e provincia. Diffuso anche fra quelli che illegalità vere e proprie, in fin dei conti, non ne commettono.
Basta esplorare il mondo delle cosiddette scuole calcio, delle feste di piazza, di matrimoni e comunioni festeggiati nei tanti megaristoranti, per rendersene conto intuitivamente. E’ un’ infinita passerella di “guappi di cartone” o, come si dice oggi, di “guappi a trucco”, di camorristi pezzottati. Non c’è chi non si vesta à la camorrista, che non gesticoli e parli alla maniera del malavitoso. E’ un gergo, un atteggiamento insopportabile quanto diffuso. Eppure la maggior parte di questi guappi può facilmente esser messo in fuga con due semplici ceffoni. Ma dove non sentite, ad un angolo o in un bar, qualcuno che, ricevuto uno sgarbo, o patito un piccolo sopruso, non vanta di essersi rivolto all’amico, a quell’amico… che, intervenendo, ha dato soddisfazione?
Perché meravigliarsi che un giovane immaturo e forse un po’ impasticcato o bevuto, dia una coltellata ad un altro giovane solo perché ha guardato la sua donna, come nella più improbabile delle sceneggiate del tempo antico?
Non è paradossale affermare che questo aspetto della fenomenologia malavitosa sia il più difficile da combattere. Non ci possono le istituzioni e le forze dell’ordine. Meno che mai la scuola, che tante volte s’invoca superficialmente. Pensate voi che questo gusto della malavita possa spegnersi organizzando nelle nostre scuole medie e nei licei manifestazioni per la legalità nelle quali un professorino o una maestrina, malpagati e col dito alzato, indicano la retta via ai futuri guappi, di quartiere o di condominio poco importa? Semmai queste iniziative, che si offrono allo sberleffo e alle argute battute dei più “scetati” fra i ragazzi, raggiungono l’effetto opposto.
Ecco perché l’iniziativa di Ermanno Rea mi sembra particolarmente rilevante. Perché questo fenomeno, e non sembri paradossale, possono, devono combatterlo artisti, poeti, registi, musicisti. Ma non , come talvolta accade, con la spuntata arma della retorica, ma con quella ben più appuntita dell’ironia, dello sfottò. Molti grandi scrittori della nostra tradizione si sono spontaneamente avventurati su questa strada. E forse chi meglio ha rappresentato il gusto della malavita e più di altri ha esercitato, di conseguenza, l’ironia, è stato Raffaele Viviani. Bisogna rileggere Bambinella per capire la vera psicologia di una prostituta. Ricordarsi delle tante caricature di guappi “schiaffieri” e di falliti “giovani annurati” per ritornare alla radice di questo nostro dramma e cercare poi di attualizzarlo nei modi e nelle forme nei quali, purtroppo, si rappresenta ancora tutti i giorni.
Ernesto Paolozzi
Da “la Repubblica” del 29 maggio 2004 Repubblica archivio