Questione meridionale l’Italia riparte da qui

Ciclicamente si torna a parlare di questione meridionale per darla per morta o risorgente. Questa volta, spiace dirlo, con un ministro della Repubblica che scopre l’acqua calda ricordando che la camorra raccoglie a Napoli un certo consenso popolare. E’ evidente che chi ha un po’ di buon senso, o anche un po’ di amor proprio, cerchi di sottrarsi a questa sorta di rappresentazione del già visto. Ma, così facendo, si viene meno a quel dovere critico che è un dovere verso se stessi e verso la propria comunità.

Proviamo allora a ragionare insieme. Se per questione meridionale si intende l’esistenza di un divario di sviluppo economico, sociale e politico fra il Sud d’Italia e il resto del paese, non si può negare che questo divario sussista ancora. Non vi è dato parziale, circa questo o quel settore specifico che possa contrastare seriamente l’andamento generale della storia italiana dall’Unità ad oggi. Vi sono naturalmente novità, diversità di interpretazione che vanno segnalate e discusse perché la questione meridionale non è immobile, come d’altro canto nessuna altra questione nella storia e nella vita.

Le novità più rilevanti, a mio avviso, riguardano l’aspetto politico e, per così dire, antropologico o di costume.

Sul piano politico è evidente che, accanto alla questione meridionale, si colloca oggi una questione settentrionale. In parte del Nord, infatti, e soprattutto nel Nord-Est, si è verificata una rottura storica, con la politica italiana dell’era repubblicana, enorme, vistosissima. La presenza della Lega e, soprattutto, di certi umori genericamente diffusi in quella parte d’Italia, ha messo in discussione i pilastri della cultura politica italiana saldamente edificati dal cattolicesimo democratico e liberale di De Gasperi, dal comunismo italiano di Togliatti e Berlinguer, dall’Italia laica di Croce ed Einaudi. Anche se ogni novità presenta aspetti positivi che vanno in qualche modo colti e interpretati, la frattura provocata dal leghismo sta lacerando e danneggiando l’intero paese: il Nord che rischia di rinchiudersi in se stesso, in un provincialismo miope sia culturalmente che economicamente; il Sud che si sente di continuo offeso e posto ai margini della vita complessiva della nazione.

L’altra novità è costituita dal fatto che mentre, come si è detto, si incrina quell’ unità nazionale con la quale erano stati affermati valori fondamentali, come quelli della libertà, della democrazia e della solidarietà, da Cavour a De Gasperi, per citare solo due alti simboli, sul piano della vita quotidiana il Sud, paradossalmente, si va sempre più omologando, non solo allo stile di vita italiano, ma a quello più largamente europeo ed occidentale. Ciò significa che mentre nella questione meridionale classica la cultura diffusa nel Sud (in senso antropologico, naturalmente, non l’alta cultura dei Vico, dei Cuoco, dei Croce) andava per tanti aspetti modificata se non soppressa, oggi comincia a porsi il problema inverso della salvaguardia delle identità e delle tradizioni. Sebbene in un certo immaginario collettivo, e soprattutto cinematografico-letterario, circolino ancora i luoghi comuni della gelosia dei meridionali, la scarsa voglia di lavorare, l’istintiva simpatia e via dicendo, è vero invece che perfino il dialetto rischia di perdersi o, quantomeno, di tramutarsi un una nuova lingua nella quale gli influssi stranieri quasi eguagliano quelli della tradizione.

Un’altra questione, se non nuova da troppo tempo trascurata ma che ritorna prepotentemente alla ribalta, è quella della collocazione geopolitica della questione meridionale. Retoricamente si ripete spesso che la vocazione del Sud, e soprattutto delle sue grandi città, Napoli e Palermo, sia una vocazione mediterranea. Sul terreno della letteratura si intende con ciò riferirsi ad una forse presunta mediterraneità dei nostri atteggiamenti e delle nostre tradizioni, da utilizzare, tutto sommato, in chiave antiamericana se non antioccidentale. Il nostro folklore, come avrebbero detto i vecchi antropologi, contrapposto allo sfrenato consumismo nordeuropeo e nordamericano.

E dove si collocherebbe Roma?

Sul terreno socioeconomico la mediterraneità si intende invece, più prosaicamente ma forse più concretamente, come lo spazio economico che potrebbe creare nuove opportunità e nuovo sviluppo e di cui il nostro Sud potrebbe essere protagonista.

Non è questione nuova, lo si è detto. Ma è ben presente se si pensa ai contrastanti segnali che i paesi che si affacciano sul mediterraneo lanciano in questi anni e in questi mesi: dalla rinascita del fondamentalismo islamico alle contrapposte aperture occidentaliste della Libia e di altri paesi di quell’area. Allargandosi inoltre il commercio mondiale verso un Oriente (penso, soprattutto, alla Cina) che lascia convivere totalitarismo politico e liberismo economico, è evidente che il mare nostro, il Mediterraneo, ritrova centralità rispetto all’oceano Atlantico che rischia di diventare un sia pure grandissimo mare chiuso.

Accanto a tutto ciò sussistono elementi che potremmo definire tradizionalissimi della questione meridionale: la debolezza intrinseca della classe politica, sempre a rimorchio di quella del Nord, la debolezza delle classi dirigenti in generale e della borghesia imprenditoriale in particolare, il deficit cronico del sistema delle infrastrutture, dalle autostrade ai porti alle ferrovie, la difficoltà di trovare lavoro, soprattutto lavoro intellettuale. E ancora, l’assenza di un sistema bancario degno del nome e, per ultimo, ma non certo ultimo, l’annoso, mai risolto problema della malavita organizzata che oggi rischia di occupare per intero la scena giornalistica e, dunque, l’agenda politica.

Ora, una volta elencati, quasi sotto forma di appunti, i temi vecchi e nuovi della perdurante questione meridionale,  quali possono essere i rimedi?  E’ evidente che sui singoli temi, soprattutto sugli ultimi elencati, vi sarebbe la necessità di interventi governativi che prescindono dalla querelle un po’ dottrinaria fra statalismo e liberismo perché è evidente che l’ infrastrutturazione di un paese o la politica economica che regola la raccolta del denaro non può essere svolta esclusivamente da una singola regione, da un singolo comune o da una generica nozione di società civile. E’ vero altresì che i segnali che provengono dall’attuale classe politica di centrodestra, ma in parte anche di centrosinistra, vanno tutti in senso contrario. Tutti i segnali, dalla politica universitaria e scolastica a quella fiscale, dall’assenza di ogni forma di politica industriale al minacciato federalismo separatista, convergono verso la morte, questa volta sì, della questione meridionale, ma nel senso, banale e terribile assieme, della totale disattenzione verso i problemi, che esistono e crescono.

E’ allora evidente che è necessario ritrovare le energie intellettuali e politiche perché la questione meridionale venga collocata al posto che le compete. I meridionali, innanzitutto, dovrebbero scrollarsi da dosso il complesso acquisito in questi ultimi venti anni, nei quali si è voluto confondere il vecchio, autentico, rigoroso meridionalismo dei Fortunato e dei Dorso con quello degli assistenzialisti, dei neoborbonici o dei revancisti.

La questione meridionale è una questione seria, che investe l’intero campo della cultura politica italiana. Se l’intera classe dirigente del paese, vogliamo dirlo, le elites, non prenderanno coscienza della gravità della situazione, se non riusciranno a razionalizzare le spinte irrazionali che provengono dal Sud come dal Nord, sarà difficile arrestare ciò che oggi appare l’inesorabile declino italiano.

Ernesto Paolozzi

Da “La Repubblica” 24 febbraio 2005

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