Raggianti fra Croce e Vico*

Nel saggio L’arte e la critica, Carlo Ludovico Ragghianti scrive: “Ed è ben noto che io non ho nessuna obbiezione ad essere chiamato ‘crociano’ (…). Per quanto possano essere modesti i risultati della mia riflessione, certamente incomparabili con quelli raggiunti dal genio del Croce, sentirei tutto il ridicolo dell’affettazione o della smania di un distinguersi da ideali di continuità, che è invece proprio di coloro che pensano seriamente l’affermare; così come Croce stesso ha dato l’esempio di fare, col richiamarsi all’insegnamento del Vico e del De Sanctis, e per di più proprio quando integrava o correggeva le loro concezioni.” (1)

Questa dichiarazione è così chiara e ragionata, così eticamente rigorosa, che non metterebbe luogo di ricordare ulteriormente la filiazione crociana del nostro più grande critico d’arte. D’altro canto, non c’è saggio o scritto minore in cui Croce non venga richiamato, e, ancora, è noto che la rivista fondata da Ragghianti, “La critica d’arte”, richiama, già nel titolo, la rivista crociana fondata nel 1903, sulla quale egli, giovanissimo, nel 1933, pubblicò il fondamentale saggio sui Carracci.

Tuttavia lo studioso toscano operò nel senso della più rigorosa critica nei confronti di Croce, nel tentativo di approfondire alcuni temi specifici di capitale importanza. Il punto centrale riguarda senza dubbio la possibilità di specificare un senso proprio delle arti figurative (che Ragghianti ribattezza felicemente arti della visione) e in particolare del cinema, senza venir meno all’assunto fondamentale della sostanziale unità delle arti. Che il giudizio estetico, infatti, sia sempre tale, che si giudichi di musica o di poesia, di romanzo o di architettura, di scultura o di cinema, rimane un punto fermo ma è altrettanto vero che l’esperienza concreta, il “fare” arte e critica, vichianamente (e Ragghianti, soprattutto l’ultimo Ragghianti, sempre richiama la produttività vichiana), ci induce a ritrovare nell’orizzonte dell’universale arte la specificità della singola arte giacché verum et factum convertuntur.

Così Carlo Ludovico Ragghianti, nella sua lunga e travagliata vita intellettuale, sempre rigorosamente anticonformista, cercò di cogliere la peculiarità del discorso e del percorso artistico e di individuare il proprio del cinema nell’elemento del movimento che sembra caratterizzare questa arte. Ma, giova ribadirlo, né in suoi scritti pubblicati, e mai nemmeno in lettere private e discussioni, smentiva il concetto fondamentale, di origine crociana, dell’unità delle arti nell’unica arte. La specificità del cinema, come quella della letteratura, del teatro e dell’architettura, opera sempre nell’ambito di un comune orizzonte categoriale giacché di natura completamente diversa sono le operazioni puramente intellettuali o quelle puramente pratiche che appartengono al mondo dell’etica, dell’economia, della politica. Secondo la nostra interpretazione Ragghianti intendeva affermare l’idea che l’autore, quando è veramente artista, nelle rare volte che è veramente artista, intuisce e crea la sua immagine già tenendo presente il mezzo tecnico che ha a disposizione. Non si intuisce fuori di una forma e sempre dunque, giusta l’identità di contenuto e forma, l’intuizione è intuizione di quel contenuto espresso in quella forma. Il critico non deve, di conseguenza, sottrarsi al compito di ripercorrere il percorso compiuto dall’artista tenendo presente la specificità, plastica, visiva, dinamica, od altro, della forma in cui la sua intuizione si è concretizzata.

Non tocca a noi, in questa sede, sottolineare le eventuali aporie che accompagnano il grande sforzo compiuto da Ragghianti, ma certo è che quella da lui tracciata è la strada da seguire per andare oltre Croce senza rischiare, come forse è accaduto in questi anni, di tornare indietro a De Sanctis. A nostro modo di vedere la questione va affrontata secondo un criterio che potremmo definire di buon senso e che pure, invece, può apparire paradossale. Ciò che in realtà esiste non è né l’arte in generale né le arti particolari. Ma sempre e soltanto le singole opere che, concretamente, incontriamo. E solo esse vanno giudicate in base al criterio puramente estetico della loro autonomia. E’ l’autonomia dell’arte, infatti, il concetto fondamentale che guidò anche l’opera di Ragghianti, teorizzato in tutta la sua forza da Croce ma già presente nella originalissima speculazione di Vico e nella critica militante di Francesco De Sanctis. L’idea,insomma, che questa particolare regione dell’essere, l’arte, pur essendo universale, vive sempre e soltanto nelle sue effettuali realizzazioni ossia, direbbe subito Ragghianti ricordando Vico, nella concreta storicità.

Non è un caso che Ragghianti, in una prospettiva rigorosamente filosofica, ponga al centro della sua riflessione la storicità come elemento fondativo del pensiero tutto e dunque anche del pensiero estetico. E, a dimostrazione della sua originale e perspicace impostazione storiografica e filosofica, propone,sempre nel fondamentale scritto L’arte e la critica, come connotazione fondamentale del pensiero crociano, quella della storicità delle scienze stesse. Il che, ancor oggi può far scandalo presso i troppi professori ancora attardati negli schemi puramente manualistici. Scrive Ragghianti: “L’incontro della riflessione fisica moderna o epistemologica con lo storicismo, e la sua sempre più sostanziale risoluzione in questo, è secondo me il fenomeno intellettuale più rilevante, che può essere chiamato idealmente distintivo di questa fase del processo del pensare, caratterizzata dalla vera e propria scoperta del Croce del pensiero come storia, con la conseguente dissoluzione logica di ogni sistema metafisico e di ogni trascendenza. E’ significativo che alla definizione crociana di natura come prodotto dello spirito, e propriamente dello spirito astraente, rispondano in modo sempre più prossimo i punti di arrivo conseguenti del moderno pensiero scientifico” (2)

Constatata ed accertata, come il grande critico d’arte amava dire, la filiazione col pensiero crociano, è fondamentale riproporre all’attenzione dei lettori l’innovazione compiuta, o forse soltanto tentata, da Ragghianti nell’ambito di quella che potremmo definire la tradizione estetica vichiano-crociana. Si è già accennato alla identificazione delle cosiddette arti figurative con l’arte della visione, come Ragghianti specifica non solo per meglio chiarire il concetto di figurazione, ma anche per identificare una peculiarità delle arti della visione e, dunque, stabilire un criterio di distinzione non solo puramente tecnica (di una tecnica esteriore) ma sostanziale. Una distinzione fra le arti comporta, di conseguenza, una riconsiderazione, nell’ambito dell’estetica, della funzione della tecnica che è sempre alla base della concreta distinzione fra le arti. La stessa iscrizione del cinema nell’ambito della visualità si inserisce in questo ragionamento. Il cinema, infatti, è un’arte della visione la quale, a sua volta, si specifica in quanto, avverte Ragghianti, “espressione figurativa avente per carattere peculiare l’oggettivazione del fattore tempo”.

Ma, concretamente, in cosa consiste la specificità delle arti figurative? Si esclude che a determinarle siano solo i mezzi esteriori, la tecnica intesa in senso tradizionale. Si è escluso anche che quella specificazione fosse determinata addirittura dagli “oggetti” diversi ritraibili dunque in modo diverso dalle varie arti. Rimane allora l’unica possibilità di definire le arti della visione nel loro particolare sviluppo, processo, o farsi, individuandone l’originalità e l’irriducibilità rispetto al linguaggio verbale. Per una antica abitudine, si commette il grave errore, sostiene Ragghianti, di assimilare il linguaggio visivo al linguaggio verbale. Quasi che il primo debba, per manifesta minorità, rimandare al secondo. Vizio, questo, che si riscontrava anche nella semiologia e che impedì una corretta interpretazione del fenomeno visivo. Il linguaggio visivo ha, infatti, una sua piena e legittima autonomia: lo stesso alfabeto, che sembra essere il caso più eclatante di rimando dalla visione alla verbalità (il segno a sta per il fonema a), ha, invece, una sua autonomia visiva. Il suo tracciato, infatti, possiede “un’interna ed animata nervatura”. La pura visibilità, per dirla con Fiedler, autore caro a Ragghianti e a Croce, che lo riscoprì dopo anni di oblio, possiede una sua intrinseca periodicità non assimilabile ad altre, bensì specifica e determinante. Raffaele Bruno, nel saggio La filosofia dell’arte di Ragghianti (in “Nuova Antologia”, gennaio-marzo 1980), commenta e chiarisce: “Il tracciamento della linea retta può parere cosa elementare e aproblematica, mentre si tratta di un’esperienza od atto fondamentale della coscienza, che esce dal limbo oscuro dello scribillo inconiugato, transeunte, divagante, indeciso, in coordinato, instabile, immemore del lallen grafico infantile, e si fa e si costituisce come percorso consapevole e coesivo, si disciplina, si domina e possiede fuori di ogni casualità e precarietà …”

D’altro canto, la stessa geometria è intesa dal Ragghianti come un processo autonomo e razionale neanch’esso trasferibile ad altri processi puramente linguistico o logico-formali. La geometria partecipa in modo dialettico al concreto processo o farsi spazio-temporale dell’arte. In Discorso e percorso scrive: “La geometria, pensandosi, come intese una volta per sempre Platone, ed elaborandosi nei suoi stessi termini di operazioni grafiche, nel porre come elementi e figure basiche i suoi assiomi e postulati e principii, e nello svolgerne dai termini stessi, con varie ipotesi e trasformazioni e combinazioni e sillogismi, le consecuzioni e i teoremi definiti con metodo logico ancorché puramente visivo, ha mutuato ai processi artistici o espressivi in termini di forme e costruzioni lineari, plastiche e cromatiche, le esercitate e acquisite qualità razionali. Vale a dire che tra geometria e inflessione e ordinamento e distribuzione e composizione della forma sono avvenuti ricambi analoghi a quelli del discorso poetico con gli apparati logici della retorica in primum da essi derivati, influendo sulla grammatica e sulla sintassi e, in generale, sulla illazione comunicativa delle opere letterarie.” (3)

Il discorso (processo verbale), dunque, si distingue dal percorso (processo visivo). Ma essi non si distinguono, se così è lecito esprimersi, categorialmente, in quanto entrambi costituiscono un processo espressivo. Si distinguono in quanto contengono interne regole irriducibili le une alle altre.

A nostro modo di vedere, questa importante e complessa teoria di Ragghianti può superare un problema vero, profondo, dell’estetica crociana oppure, a seconda delle interpretazioni, rimanere a mezza strada e valere solo come sollecitazione per la risoluzione della questione. Il punto centrale, ci sembra, sia quello costituito dall’idea che, quali che siano le forme espressive da prendere in considerazione, esse, pur rappresentando sempre e soltanto l’unica espressione artistica, si diversifichino, si distinguano nella loro processualità e non in base alla pura, astratta, tecnica. L’autore di un dramma o di una commedia può, come spesso accade, semplicemente mettere in forma di dialogo e di rappresentazione scenica un testo letterario, almeno un abbozzo di testo letterario. Ma in altri casi, quelli generalmente in cui l’opera è pienamente riuscita, l’autore, per così dire, “pensa”, “intuisce”, già “teatralmente”, ossia la sua intuizione è un’intuizione teatrale. A maggior ragione ciò vale per il cinema o la fotografia e così via.

Nel saggio del 1954, Croce e il film come arte, saggio peraltro gustoso e godibile anche sul piano dell’alta aneddotica biografica, Ragghianti scrive: “Certo, non tutto il cinema che viene prodotto è cinema in senso autentico e proprio, cioè estetico: non diversamente avviene, però, nella restante arte figurativa, nella poesia o nella musica – Allorché il linguaggio non è espressione od immagine ma passa ad essere segno o strumento di comunicazione, esso si risolve (questo è il punto dialettico) nella forma spirituale che per esso si significa.” (4)

Effettivamente questo è il punto dialettico e fondamentale. Non vi è trasposizione quantitativa puramente esteriore fra tipi di linguaggio, modi di espressione, tecniche, di vario tipo. Il linguaggio è sempre uno ed uno soltanto, come aveva sostenuto Croce. La caratteristica specifica che esso assume dipende essenzialmente dal significato preponderante che esso assume. E’ per questo motivo, e già Croce si esprime in questo senso, che è lecito parlare di bellezza di un testo filosofico e perfino di un testo di matematica o di geometria. Ciò non significa che, in sede di giudizio, il giudizio stesso varii a secondo che si tratti di giudicare un’opera di filosofia o di arte.

In ultima analisi, ci sembra di poter dire che il proprio dell’estetica di Croce consista in un’idea estremamente semplice alla quale si giunge, come spesso accade, solo dopo un complesso travaglio. L’idea che, come Croce stesso scrive con sottile ironia nel Breviario di estetica, “Alla domanda -Che cosa è l’arte?- si potrebbe rispondere celiando (e non sarebbe una celia sciocca) che è quello che tutti sanno che cosa sia.” Certamente ciò che, alla resa dei conti, interessa, è se un’opera, qualunque opera, da chiunque sia stata creata, in qualunque modo sia stata realizzata, è arte, è bella.

Ad una considerazione simile si può giungere seguendo il percorso inverso da quello intrapreso da Ragghianti, quello seguito dal suo antico amico e musicologo Alfredo Parente, il quale si interrogò attorno all’unità-distinzione delle arti a proposito del famoso film di Walt Disney, Fantasia, nel quale, com’è noto, alla raffigurazione suggestiva di cartoni animati, si accompagnava l’altrettanto suggestiva colonna sonora composta dai più noti brani classici. I critici accademici storcevano il naso di fronte a quella che sembrava una indebita commistione di linguaggi e quasi un atto di irriverenza. Ma, se è vero ciò che abbiamo cercato di dire, l’unico problema estetico che si poneva era quello di rispondere alla domanda se quel film fosse o non fosse riuscito, se quel film fosse o no un’opera d’arte, se fosse, lo diciamo ancora una volta polemicamente, bello o brutto.

Ernesto Paolozzi

Note

1) C.L.Ragghianti, L’arte e la critica, Vallecchi, Firenze, 1980, p.47

2) Op.cit., p.26. Su questo tema fondamentale ci permettiamo di rinviare al mio Benedetto Croce, logica del reale e il dovere della libertà, Cassitto, Napoli, 1998 e al volume di G.Gembillo, Neostoricismo complesso, ESI, Napoli, 1999.

3) C.L. Ragghianti, Discorso e percorso, in Arti della visione, Einaudi, Torino, 1979, vol.III, p.23. E’ fondamentale, per il completamento del discorso di Ragghianti, riferirsi almeno a L’uomo cosciente. Arte e conoscenza, Calderini, Bologna, 1981.

4) C.L. Ragghianti, Croce e il film come arte, in Arti della visione, cit., vol.I, p. 158

5) A. Parente, Colori e forme nella musica, in Castità della musica, EDA, Torino, 1982(1936).

*Relazione letta al Convegno organizzato dall’Università di Cassino sulla figura e l’opera del grande critico