di Giovanni D'Alessandro
(La Città, quotidiano di Teramo)
C’è un tono combattivo nella dolente disamina dello stato dell’occupazione in Italia e in Occidente, contenuta nel volume “Diseguali – Il lato oscuro del lavoro” (Guida 2018, p.140 €12) dello studioso e docente Ernesto Paolozzi e di Luigi Vicinanza, attuale direttore del “Tirreno”, dopo avere governato “l’Espresso” e quotidiani tra cui “il Centro”.
Dagli ultimi decenni del Novecento la globalizzazione e l’involuzione politica dell’Occidente, succube della prima sotto più versanti – affermano gli Autori – ha fagocitato le idealità costitutive degli Stati, facendo della “crisi del lavoro la più vasta crisi della democrazia”.
E’ scomparso, cioè, l’assioma etico fondativo della democrazia intesa in senso etimologico, quale governo del popolo, che ha come postulato la partecipazione, utile e attiva, dell’uomo-“animale politico”, per citare Aristotele, alla collettività in cui vive.
Questa partecipazione è stata fatta regredire a variabile di un profitto sfrenato, l’unico – si teorizza – in grado di governare la contemporaneità; peggio, la partecipazione viene presentata come sua pastoia, che ne tarpa e comprime l’avanzamento verso le “magnifiche sorti e progressive” del genere umano. Tale immensa falsità si ammanta di una programmatica sottovalutazione della professionalità, che porta a irridere la stessa esperienza lavorativa, lo stesso sedimentarsi di tecnicalità e di know how, come se il possederli fosse oggi da guardare con sospetto, quale cartina di tornasole d’una sclerosi professionale. Mentre è vero il contrario. E’ sotto gli occhi di tutti che una società tecnologica in vorticosa evoluzione, quale quella occidentale al varco del Terzo Millennio, si basa su una profonda conoscenza del prodotto e non su una sua volatile offerta.
I guasti – in termini ad esempio di garanzia – prodotti dalle randomiche strutture deputate a presidiare questi nuovi confiteor economici sono visibili in una delle strutture portanti del sistema, cioè nei call center. Chi vi opera – e sono tanti giovani e meno giovani – è chiamato dalla committenza a spostarsi indifferentemente da una produzione a un'altra, compiendo rispetto alla clientela invisibilmente raggiunta operazioni prossime a reati come la truffa o la circonvenzione d’incapace. L’azione di queste nuove strutture di dealing è infatti programmaticamente rivolta, come a vittime designate, a fasce sociali e culturali più indifese, meno reattive.
Quale clima – per tornare al tema di Diseguali – può regnare all’interno di tali strutture?
Pessimo, ovviamente. E’ fedele immagine della precarizzazione occupazionale imperante. Giovani e meno giovani, per ritrovarsi a lavorare lì, hanno cercato e stanno cercando altrove, senza riuscire a trovare. Sono “ricattabili” in termini di mantenimento di una fonte di reddito pur economicamente e temporalmente limitata – al limite di sostenibilità di un’esistenza libera e dignitosa, quale quella sancita dalla Costituzione – e le strutture datoriali lo sanno bene. Ciò è del tutto funzionale al sistema. Bisogna rendere soprattutto le nuove generazioni masse di ciechi automi, spostabili da prodotto a prodotto, che abbandoneranno prima di essersene impratichiti, rendendoli schiavi di trend che non contribuiranno mai a creare. Così il lavoro, da strumento di evoluzione sociale, diviene “strumento di umiliazione”. E non è solo questione di ascensore di mobilità sociale bloccato da decenni, in Italia, al piano zero, dove i figli dei ricchi possono permettersi l’accesso a certe elevate professioni, i figli dei poveri non saliranno mai e tutto deve cambiare e dissimularsi affinché tutto resti uguale. E’ peggio. E’ un consumato “divorzio tra capitalismo e democrazia”. “La politica si è fortemente indebolita, non riuscendo a essere più lo strumento dell’etica e della saggezza per governare la vita associata.” –scrivono Paolozzi e Vicinanza – “La democrazia deliberativa e deliberante, strumento utile per aiutare i cittadini a rendersi consapevoli delle scelte da prendere, si è rivelata impraticabile in una società troppo complessa, in un mondo nel quale avvenimenti e mutamenti si rincorrono in modo troppo rapido e confuso”. Insomma la democrazia, praticata sul terreno-principe del lavoro, costa troppo. La modernità non può permettersela. Ma “il deperimento del modello democratico non è addebitabile soltanto al nuovo sviluppo dei sistemi economici mondiali, bensì a una più generale consunzione della civiltà politica di cui dobbiamo prendere atto e che dobbiamo cercare di comprendere per provare a ricostituirci un orizzonte di senso”.
Questo cinico neocapitalismo-monstre va dunque stanato dove si nasconde, nelle criptiche oligarchie finanziarie sovranazionali senza volto, ricostituendo una nuova idealità negli Stati-vittime, e affrontandole come si va all’attacco di un nemico non del tutto visibile, ma da annientare. Rivolta contro un potere nascosto? Anche, in parte. Ma soprattutto coscienza, da parte di una nuova classe di combattenti, che la dissoluzione dell’accesso a un lavoro degno di questo nome non è che il primo campo di battaglia della “ più generale trasformazione morale, politica e sociale della nostra epoca”.
Ricca, e soprattutto viva è l’analisi di Diseguali, anche nella mappatura dei riferimenti culturali. Dalla Scuola di Francoforte a Foucault, da Rifkin a Morin a Popper, muovendo da Giordano Bruno e Machiavelli, da Vico e Kant, da Hegel e Marx, da Gramsci e Croce, questi riferimenti non vengono pesantemente citati, bensì distillati in pillole condensanti acquisizioni del pensiero che sono ancora attuali, anche se in alcuni casi raggiunte secoli fa; il tutto al fine di favorire la leggibilità d’un testo che ha tono e misura di un pamphlet, senza abdicare alla profondità di un saggio.
Lo percorre una nota appassionata, culminante in un approdo alla “indispensabile disobbedienza”, intesa non tanto come rivolta, quanto come osservazione d’un orizzonte di finitudine e di coscienza dei limiti dell’attuale establishment datoriale del lavoro e delle derive cui esso conduce: nate da assiomi liberistici in fase di sgretolamento, consegnatesi oggi – spiegano Paolozzi e Vicinanza – a un mortale abbraccio a (velleitari, violenti) populismi e sovranismi.