Filosofia e scienza

L’acuto intervento di Guido Trombetti sulla necessità che filosofia e scienza si interroghino sulla loro natura e sugli altri “saperi” superando i confini disciplinari necessariamente imposti dagli ordinamenti universitari, mi ha fatto tornare alla mente un episodio che, per alcuni studenti, fu di grande importanza. Raffaello Franchini, docente di Filosofia teoretica, usava invitare tutti i giovedì un non-filosofo al suo corso per parlare, appunto, della filosofia e dei suoi confini.

Venne un giorno lo scienziato Eduardo Caianiello.

Dopo la breve presentazione si alzò, si diresse verso la lavagna e scrisse: ”44”. Poi chiese a noi studenti di dire cosa avesse scritto. Dopo un comprensibile imbarazzo, qualcuno, forse per accelerare i tempi, rispose: “Quarantaquattro”. Al che Caianiello disse: “Per certi aspetti hai ragione. Però, in questo caso, io intendevo scrivere due quattro, cioè due 4 in fila.”

Da qui una lunga discussione che ci permise di comprendere che la matematica non era quella che avevamo imparato ad odiare (o, qualche rara volta, ad amare) al liceo.

C’era chi sosteneva che la matematica fosse puramente convenzionale e chi sintetica, come avrebbe detto il nostro Kant, o, ancora, chi la voleva analitica e chi, come alcuni grandi matematici, intuitiva. E scoprimmo che l’amico di Russell, che col più noto filosofo aveva scritto “i Principia Matematica”, Alfredo North Whitehead, era giunto a pensare la matematica in termini platonici, abbandonando il giovanile “realismo”. Cosa è, infatti, un numero se non un’astrazione che precede la cosiddetta realtà? Noi vediamo tre pere, tre mele o tre arance, non vediamo il numero tre. E, dunque, secondo il matematico-filosofo, questa idea di tre non poteva che essere, per certi aspetti, innata. Come, d’altro canto, non può che non essere innato il numerare, giacché le cose non si contano da sole.

Crollavano così, per noi, pregiudizi antichi e radicati.

Nei mesi seguenti, comprendevamo il perché dell’ostilità nei confronti delle scienze, di filosofi come Bergson, Husserl, Croce. In realtà questi polemizzavano con le scienze dell’Ottocento e non con quelle del Novecento che, da Heisenberg in poi, incrociavano proprio la filosofia e, potremmo dire con termine moderno, la filosofia ermeneutica o del giudizio e, per tanti aspetti, lo stesso storicismo.

E’ quindi di importanza capitale, a mio avviso, che le istituzioni universitarie ritornino, come ha annunciato Trombetti, ad occuparsi di questi temi, perché altrimenti la loro stessa natura di istituzione rischia di far perdere quella creatività e quella originalità sulla quale si fonda la ricerca in tutti i settori. Solo così si può tentare di infrangere i perduranti pregiudizi che Einstein diceva essere più difficili da distruggere di quanto non sia spaccare l’atomo.

La ricerca scientifica, infatti, come la ricerca storica e filosofica, per poter creare, deve tendere a distruggere, a sconfiggere e a superare il passato pur avendone il dovuto rispetto.

E solo in questo ambito, mi preme sottolineare, è possibile ricollegare l’idea etico-politica di libertà alla ricerca. Perché se rimanessimo nel campo del puro determinismo, del puro meccanicismo, di quale libertà mai potremmo parlare? E senza vera libertà, di quale responsabilità si potrà mai discutere?

In questi ultimi tempi, con l’avvento della sociologia della complessità di Morin, di cui si è occupato recentemente a Napoli Giuseppe Gembillo, con la divulgazione degli scritti di Maturana e Varela, con le nuove intuizioni di Prigogine, proprio nella nostra città si è sviluppata un’attenzione particolare sulla stretta connessione fra un’idea moderna della libertà, intesa come libertà liberatrice, per dirla con il vecchio Rettore Adolfo Omodeo, e la scienza moderna, quella che fonda se stessa sul principio della indeterminazione e della complessità. E solo preservando tale natura della scienza si può contenere la “dittatura” della tecnologia, perché si scopre, come sottolinea Trombetti, con un rigoroso ragionamento filosofico, quello che molti avvertono istintivamente, ossia che fra ricerca scientifica e potere economico e politico, il legame è molto più stretto di quanto non si creda.

Ernesto Paolozzi

Da “La Repubblica” 28 febbraio 2006                                                                                                                                              Repubblica archivio