Ritornare alla politica. I pericoli dell’antipolitica.

Avverto l’esigenza, ora che gli schieramenti si sono palesati, le “spaccature”, personali e politiche, si sono consumate, le liste sono state consegnate al giudizio degli elettori, di riordinare un po’ le idee per poter guardare oltre questo momento nel quale, francamente, la politica, tutta, non ha certamente mostrato il meglio di sé. E non è, il mio, un ossequio all’ondata di antipolitica, che sta trascinando con sé non il peggio del “sistema” ma ogni possibilità di intelligenza delle analisi, di onestà dei comportamenti, di rispetto di quella cittadinanza per il bene e nel nome della quale sostiene di agitarsi.

Ciò che vorrei, invece, affermare qui è la necessità di tornare alla politica.

Girando in questi giorni fra i simpatizzanti del Partito democratico, ho notato che, mentre da un lato, si guardava ad un partito che potesse riformulare un’idea di Mezzogiorno nuova e intelligente da opporre alla volgare polemica leghista; mentre si riponeva la speranza in una nuova Europa che potesse collocarsi come modello di sviluppo economico e sociale tra il capitalismo nordamericano e il neocapitalismo totalitario della Cina, irrompevano improvvisamente, troncando ogni speranza, furori antipolitici, condanne senza appello di tutto e tutti,

Ma, chiediamoci, cosa ha fatto dal canto suo, in questi giorni la politica o, meglio ancora, la politica di centrosinistra, concedendo ad un centrodestra sornione un tranquillo riposo? Che spettacolo ha dato di sé?

Mi sembra che abbia fatto suoi il linguaggio, i toni, i comportamenti della più becera antipolitica. A tal punto che, sfogliando le pagine dei nostri quotidiani mi veniva da pensare che ad un cittadino per bene avrebbe dovuto solo dare di volta il cervello per lasciarsi convincere a cedere alle tante invocazioni e decidere di “partecipare”, di spendere il proprio impegno ed il proprio nome per una causa così male rappresentata dai suoi interpreti.

Si sono usate, e abusate, mi chiedo quanto volutamente, categorie totalmente estranee alla politica come quelle della continuità e della discontinuità, del vecchio e del nuovo, e gli attacchi personali hanno involgarito il dibattito senza giovare al chiarimento delle posizioni, al confronto sui programmi.

Il linguaggio si è fatto pesante, arrogante, sbrigativamente offensivo.

Si è giunti a dare del “perdente” a questo o a quell’uomo politico, come se “perdente” fosse una connotazione politica sensata e non un consapevole espediente demagogico per colpire basso un avversario.
Volano attacchi sommari e generici; a qualcuno si imputa con studiato vigore, di appartenere ad un mondo, ad una continuità, senza che si opponga un solo ragionamento ai ragionamenti.

Quando è la politica a fare l’antipolitica nasce sempre il sospetto che essa confidi saldamente in quella lontananza del cittadino che a parole dice di voler colmare ma che è funzionale alla demagogia e al populismo, rendendo il cittadino ingenuo, credulo, strumentalizzabile. In un momento di crisi forte della democrazia ci si aspetta invece che la politica sia responsabile, che educhi e non diseduchi alla convivenza e al confronto democratici, che sia modello di generosità e di equilibrio per una società sempre più incline al livore, sempre più confusa, sempre più vulnerabile di fronte agli attacchi di un’antipolitica che sa bene come distruggere ma non è capace di costruire.

Le liste che si richiamano a Veltroni faranno bene a seguire lo stile pacato e positivo indicato dal loro leader, le altre liste, quelle che si richiamano a Bindi e a Letta faranno bene a non assecondare, sia pure oggettivamente, lo strumentalismo dell’antipolitica sfoderata ad hoc da persone tanto lontane da chi la politica vuole riformare, non avvelenare.

D’altro canto, l’antipolitica è una cattiva bestia che, una volta liberata, finisce con l’azzannare tutti, e così si comincia a parlare di casta universitaria, di casta delle professioni, di poteri forti dell’economia, di sistema di potere dell’informazione e così via.

Si descrive un paese in assoluto declino e la città di Napoli decadente nella più generale decadenza. Sembra di vivere alle soglie di un disastro economico, morale e sociale che tutti i dati, statistici ed economici, smentiscono ampiamente. Chi si giova di tutto ciò? Alla fine nessuno. Questo clima finisce lentamente col deprimere il turismo, con lo spaventare gli investitori, impaurire i consumatori. E, poco alla volta, ci si trova tutti veramente a declinare per esserci tolti, ciascuno di noi, lo “sfizio” di attaccare tutto e tutti. Compito di una classe dirigente è riuscire a ritornare non solo a governare l’amministrazione ma ad orientare l’intero processo etico-politico.

Nonostante tutto, io credo che la maggioranza cittadini, fra la generosità di chi si offre alla politica e l’ingenerosità di chi vi si sottrae per il semplice gusto di attaccare o infamare qualcuno, ancora scelga la prima. Sta a tutti noi offrirle una possibilità.

Ernesto Paolozzi

Da “Repubblica Napoli”, 5 ottobre 2007                                                                                                                                         Repubblica archivio