Si fa presto a dire plebe: Napoli come New York. Napoli nel confronto con Istanbul e Tangeri.

Il parallelo con la grande metropoli americana è instaurato da Michael Ledeen, celebre analista politico legato al partito Repubblicano, in un recente volume non ancora tradotto in italiano. Non si tratta di un’analisi sociologica e nemmeno politica. Sorprendente, certo, a prima vista ma forse meno se si pensa allo spirito intimo che anima i cittadini, le popolazioni, di queste due città così atipiche, in fondo così moderne e tradizionali assieme. Varrà la pena, mi auguro, che qualche editore pensi a pubblicare la traduzione italiana di questa opera, che potrebbe aprire un interessante dibattito fuori dai luoghi comuni.

Analogamente, è il caso di offrire all’attenzione del vasto pubblico le conclusioni a cui perviene un pull di studiosi, coordinati da Antonello Petrillo e Salvatore Palidda, che ha dato alle stampe il volume Città mediterranee e deriva liberista. Oltre al saggio di Peraldi sul parallelo Napoli-Tangeri-Istanbul, è particolarmente rilevante, anche per chi voglia intervenire politicamente sulla città, il saggio che Petrillo le dedica specificamente. Riassumo drasticamente il punto di vista dell’autore. Anche la realtà napoletana, con le sue nuove, sterminate periferie e l’estesa conurbazione che la irraggia nell’intera regione, dovrebbe essere inquadrata e interpretata nel segno più generale dello sviluppo tipico del capitalismo neoliberista. Pensare, come si suole, cedendo agli antichi cliché, ad una Napoli palcoscenico teatrale oppure ad una Napoli particolarmente degradata e arretrata per le sue plebi chiassose e incivili, è fuorviante. Petrillo, che ha studiato con molta attenzione le tante, diverse, rivolte di popolo in occasione delle cicliche crisi dei rifiuti ed ha contestualmente seguito con attenzione lo sviluppo urbanistico dell’area metropolitana, prova a delineare uno scenario diverso. Anche a Napoli, in poche parole, il modello di sviluppo neoliberista impone cinicamente un modello di sviluppo del territorio e di comportamento delle popolazioni, le quali ultime vengono ghettizzate non solo attraverso “razionali” (altro che caotiche) politiche urbanistiche ma anche attraverso una sorta di ghettizzazione morale e politica che le abbassa a pura plebe. Come dire, da un lato c’è il progresso, l’industrializzazione, con relativa razionalizzazione ( o distruzione?) del territorio e dall’altro una pervicace resistenza alla civilizzazione dei lazzaroni napoletani.

Città mediterranee e deriva liberista

Città mediterranee e deriva liberista

Direi che il discorso di Petrillo vada preso in seria considerazione da parte di chi voglia provarsi a comprendere la città per orientare il proprio impegno politico. Lo studioso non sogna ritorni al passato o nuovi modelli economici pauperistici. Sostiene piuttosto una sociologia “debole”, che non intende sovrapporsi alla realtà inventando città o società perfette: l’intervento sulla realtà, compresa e descritta, spetta alla politica nel senso ampio della parola.

C’è un dilemma che attraversa le analisi di Petrillo e degli altri studiosi a lui vicino: perché, se quanto si è detto è vero, ci si ostina a parlare di una specificità della plebe napoletana, perché si parla di “plebe” usando un termine così carico di disprezzo? A me sembra di intuire che nella nostra città, anzi nella nostra area metropolitana, si intrecci come in pochi altri luoghi del mondo una popolazione, per così dire, delle periferie, molto simile a quella nata con il rapido sviluppo del neocapitalismo ed un’altra, effettivamente specifica, che, se si fa eccezione, forse, dei quartieri collinari, abita dentro la città, in quasi tutti i luoghi della città.

E’ quella plebe che, per un lungo periodo, è stata anche denominata lazzara. Termine, quest’ultimo, che ha origine forse nei tempi della rivolta di Masaniello e che poi, con varie sfumature, ha segnato la nostra intera storia con particolare rilevanza nelle vicende del ’99, allorché i lazzari si opposero, secondo un’antica e sperimentata storiografia, ai progressisti, agli illuministi, ai giacobini, favorendo la restaurazione del regno borbonico.

Nel ricostruire la storia del termine nel confronto con quello di plebe, un Croce giovanissimo scrive: “I lazzari erano, dunque, l’infima classe dei proletari di Napoli, quella classe che i sociologi moderni contrappongono al proletario industriale, del quale infatti forma spesso l’antitesi e talvolta l’avversario, col nome di proletario cencioso (Lumpenproletariat)”. Il richiamo al Lumpenproletariat di Marx è ampiamente rivelativo di una posizione politica che si salderà con l’interpretazione storiografica che Vincenzo Cuoco aveva dato della fallita rivoluzione democratica napoletana. Mi riferisco ai due popoli che abitano la città, diversi fra loro per due secoli di storia e due gradi climatici, secondo la sua efficace espressione.

A me pare che vadano recuperare queste sperimentate categorie per contrastare la deriva neoliberista che, giusta l’analisi di Antonello Petrillo, tende a rendere omogenea e globalizzata quella distinzione di classe che ha segnato la nostra storia, la stessa immaginazione interpretativa della nostra vita associata.