Silvia Croce si è spenta ad 87 anni nella sua casa di via Crispi a Napoli dopo una breve malattia che non le ha impedito di leggere e meditare fin quasi gli ultimi istanti. Rileggeva l’Iliade ed aveva chiesto alla biblioteca di Suor Orsola Benincasa di mandarle, per confrontarle con il testo originale, la varie traduzioni raccolte negli anni. “I Greci, diceva ai suoi cari che l’accudivano, sapevano morire”.

Nata il 29 dicembre del 1923 era la quarta figlia di Benedetto Croce, la più piccola. La sua cultura era vastissima e, naturalmente, disinteressata, frutto della grande passione e della curiosità che l’animavano da sempre.
Laureata in Storia con il grande studioso Nino Cortese, era diventata un’esperta di cinema e di musica operistica. La sua passione per il melodramma si accompagnava ad una conoscenza profonda sia sul terreno filologico che su quello più largamente ermeneutico di carattere estetico.

Accanto a tale impostazione, per così dire, classica e tradizionale, si accompagnava in lei un altrettanto profondo interesse per l’arte moderna per eccellenza, il cinema. A scorrere i Taccuini del padre, una sorta di diario sui generis, nel quale il filosofo appuntava meticolosamente le vicende grandi e piccole della vita quotidiana, il nome di Silvia compare frequentemente. Soprattutto in riferimento al cinema. Croce, infatti, si recava accompagnato ad assistere alla proiezione delle più svariate pellicole quasi a lenire, come è stato detto, le sofferenze dovute al cupo clima politico degli anni Trenta. Una passione condivisa, dunque, con la figlia più giovane, la cui vivacità e curiosità culturale rimasero vivi fino, come abbiamo visto, agli ultimi giorni.

Dopo i giovanili anni che la videro impegnata nella saggistica (non volle, per una sorta di pudore intellettuale, pubblicare di nuovo i suoi scritti) Silvia Croce si prodigò nell’impegno culturale come organizzatrice e partecipò a battaglie politiche o, meglio diremmo, etico politiche nel senso più alto del termine.

Dal 1993 fu Presidente dell’Ente morale Suor Orsola Benincasa e vicepresidente del San Carlo di Napoli. Dimostrò costantemente uno spiccato senso pratico insospettabile in una donna di cultura elegante e sobria, formatasi nei salotti culturali italiani della prima metà del secolo scorso. Era questa, in verità, un’eredità che le proveniva dal padre, il quale, da buon filosofo concreto, si dimostrò sempre estremamente attento nelle vicende pratiche, in qualche momento perfino pignolo.

Insieme alle sorelle istituì la Fondazione biblioteca Benedetto Croce e seguì sempre con grande amore ed attenzione l’Istituto italiano per gli studi storici e l’Università Suor Orsola Benincasa nella quale, negli ultimi anni, trascorreva gran parte del suo tempo.

Sono memorabili le sue battaglie a favore del paesaggio e dell’ambiente e quella, in particolare, nella quale si spese per liberare i locali del Palazzo Reale di Napoli e dell’immensa Biblioteca Nazionale, che indebitamente i gruppi regionali dei partiti politici avevano in parte occupato.

Negli ultimi anni, se mi è concesso un ricordo personale, la nostra conoscenza si era fatta più stretta e più intensa. Mi fa piacere ricordare un viaggio comune, che la signora Silvia amava raccontare ai suoi amici. Andammo a Vatolla, il piccolo paese del Cilento nel quale il giovane Giambattista Vico era stato precettore. Doveva ricevere un Premio, cosa che le faceva senz’altro piacere ma che pure l’imbarazzava moltissimo, dato il carattere schivo, seppur deciso e sempre garbato. Pernottavamo nella bellissima Paestum, a pochi passi dai Templi greci, i meglio conservati al mondo. Il viaggio, la compagnia intima, i luoghi suggestivi, quasi mitici e il clima dolce della primavera trasmettevano a Silvia Croce come una gioia antica e nuova assieme. In questi momenti era pronta ad aprire il suo animo. Raccontava aneddoti crociani ma, soprattutto, descriveva con arguzia, ironia, talvolta con irriverenza, i caratteri e i tic delle tante personalità, di grandi e piccoli personaggi, che aveva avuto modo di incontrare nella sua adolescenza e nella maturità. E alla fine, dopo aver a lungo chiacchierato di melodramma e dei grandi interpreti passati e recenti, cominciò a cantare lei stessa, invitandoci a fare altrettanto.

E’ difficile, se non impossibile, tratteggiare il carattere autentico di Silvia Croce. Ci vorrebbe la perizia, che non possiedo, di uno scrittore. Certo è che il suo sguardo era continuamente attraversato, quasi rapito, da una malinconia profonda, che la gioia di vivere e la forza del carattere rattenevano. D’altro canto la sua vita era stata attraversata da una terribile tragedia e, col passare degli anni andava accumulandosi la tristezza per un mondo passato, per una civiltà rigorosa ma tollerante, ferma ma sobria che forse le sembrava non avere più diritto di cittadinanza nella società contemporanea. Ma guai a ritenere che Silvia Croce si fosse chiusa nell’adorazione di un sia pure grandissimo passato. Al contrario, era una donna apertissima ad ogni nuova esperienza, pronta a comprendere le novità che la storia prospettava. Con stupore, talvolta, ma con la volontà di coglierne le ragioni profonde, di indagarne i tratti. Anzi, spesso e volentieri, ironizzava su quelle antiche consuetudini soprattutto quando diventavano stramberie o stravaganze nei superstiti di un mondo ormai scomparso.

In qualche momento sembrava assente, quasi svagata, e sorprendeva che avesse perfettamente inteso ciò che si stava dicendo, che avesse pienamente realizzato quale fosse la situazione. Credo che si trattasse di un modo elegante e sobrio per prendere le distanze senza offendere l’interlocutore.

Nei modi e negli atteggiamenti di Silvia Croce abbiamo rinvenuto il senso più profondo e complesso della cultura liberale, dell’animus liberale al di là dei partiti e delle istituzioni. Fermezza di principii, tolleranza nei comportamenti, rispetto del passato ed apertura nei confronti del futuro, serietà dell’impegno, e garbata, sottile ironia. Ci mancherà il suo sguardo acuto, quegli occhi ridenti, aperti alla vita, che sapevano dare improvviso conforto.

Ernesto Paolozzi

“Libro Aperto”, Numero 66, Luglio-Settembre 2011